IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa iscritta al n. 239/1995 r.g.a.c., promossa da I.N.P.S. - Istituto nazionale della previdenza sociale, rappresentato e difeso dall'avv. Angelo Acquaviva elettivamente domiciliato in Parma, via Salnitrara n. 5, presso l'avvocatura della sede provinciale dell'Istituto medesimo, appellante; Contro Dallatomasina Anna, rappresentata e difesa dall'avv. Marcello Ziveri ed elettivamente domiciliata presso lo studio dello stesso in Parma, borgo Tommasini n. 18, appellata, a scioglimento della riserva. Con ricorso al pretore del lavoro di Parma, Dallatomasina Anna, titolare, oltre che di pensione cat. IO/ART, di altro trattamento, sempre a carico dell'I.N.P.S., cat. SO, con decorrenza dicembre 1974, non integrato al minimo, essendo state vane le reiterate richieste all'Ente, dopo le pronunce della Corte costituzionale che avevano riconosciuto tale diritto pure ai titolari di pensione diretta, chiese declaratoria del suo diritto a godere del beneficio del minimo, con condanna dell'istituto ad erogarle il trattamento con gli arretrati maturati. L'I.N.P.S. si costitui', eccependo pregiudizialmente che, nel caso di specie, si era verificata la decadenza di cui all'art. 47 d.P.R. n. 639/1970 e succ. modd., essendo stata proposta, l'azione giudiziaria, oltre il termine prescritto, rispetto alla decorrenza originaria della pensione. Nel merito, eccepi' l'infondatezza della domanda, sulla base del principio di unicita' della integrazione al minimo e, quindi, della preclusione della doppia integrazione, come introdotta dall'art. 6 legge n. 638/1983. Con sentenza, resa in data 29 marzo 1995, il pretore condanno' l'Istituto a riliquidare, con la integrazione al minimo di tempo in tempo vigente, a pensione di riversibilita' della ricorrente e, per il periodo dal 1 ottobre 1983, in poi, nello stesso importo percepito, a tale titolo, alla data del 30 settembre 1983, fino a che non fosse superato per effetto delle disposizioni dell'art. 6, settimo comma, legge n. 638 cit., con la conseguente corresponsione delle competenze arretrate, fra la pensione realmente percepita e quella liquidata, a decorrere dal 1 maggio 1979, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali sui ratei arretrati, come per legge, a decorrere dal centoventunesimo giorno successivo all'insorgenza del diritto e fino al saldo. Si gravo' di appello l'Ente, ribadendo l'eccezione, asseritamente rilevabile anche di ufficio, d'inammissibilita' dell'azione giudiziale, essendo spirato il termine decennale di decadenza, censurando, altresi', in via subordinata, la sentenza, vuoi nel capo relativo alla domanda volta ad ottenere la conservazione dell'importo percepito al 30 settembre 1983, vuoi con riguardo al riconoscimento degli accessori. L'appellata si costitui', ribadendo che, nel caso di specie, la domanda giudiziale era stata proposta nell'ambito del decennio, decorrente dalla data di definizione, in senso negativo, del ricorso amministrativo, donde la sua ammissibilita', senza pregiudizio per alcuno dei ratei maturati, anche prima della originaria domanda amministrativa, se non estinti per prescrizione. Nel merito, sostenne il buon diritto della pensionata al godimento della cristallizzazione di quanto spettantele a titolo di minimo a settembre 1983, in particolare dopo la sentenza della Consulta n. 240/1994, come pure la spettanza degli accessori riconosciuti in sentenza. Dopo alcune udienze di rinvio, stante la necessita' di acquisire i redditi della pensionata, entrato in vigore l'art. 1, commi 181 e 182 della legge 23 dicembre 1996, n. 662, la discussione sul gravame subiva ulteriore ritardo, in attesa della decisione della Corte costituzionale in ordine alla predetta normativa. Intervenuta l'attesa decisione con ordinanza della Corte costituzionale n. 31 in data 11 febbraio 1999, su espressa eccezione della difesa della Dallatomasina, riservava la decisione in ordine alla legittimita' costituzionale del prec. art. 1, comma 182 della legge 23 dicembre 1996, n. 662, come modificato dal d.-l. 28 marzo 1997, n. 79, convertito con modificazioni dalla legge 28 maggio 1997, n. 140, e come da ultimo integralmente sostituito dall'art. 36 della legge 23 dicembre 1998, n. 448. Ritiene questo Collegio che la questione di legittimita' costituzionale della predetta normativa, non sia manifestamente infondata. In particolare, il comma 5 del prec. art. 36 dispone che "i giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, aventi ad oggetto le questioni di cui all'art. 1, commi 181 e 182 della legge 23 dicembre 1996, n. 662, sono dichiarati estinti d'ufficio con compensazione delle spese fra le parti. I provvedimenti giudiziari non ancora passati in giudicato restano privi di effetto". Tale normativa sembra essere in contrasto con quanto disposto dall'art. 24 Cost. Si puo' ritenere principio costante quello, secondo il quale, il limite di costituzionalita' della norma che dispone l'estinzione di un processo, e' dato dal rapporto tra l'intervento legislativo, ed il grado di realizzazione che, alla pretesa azionata, sia stato riconosciuto in via legislativa. Ne consegue che la legge deve considerarsi costituzionalmente legittima se ha soddisfatto, anche se non integralmente, le ragioni fatte valere nei giudizi estinti. In altri termini, il diritto di azione non e' leso quando l'ambito delle situazioni giuridiche di cui sono titolari gli interessati risulti, comunque, arricchito a seguito della normativa che da' luogo alla estinzione dei giudizi (v. espressamente in tal senso Corte costituzionale n. 103/1995). In caso contrario (quando cioe' il legislatore sostanzialmente si oppone alle richieste degli interessati, ed alla interpretazione giurisprudenziale ad essi favorevole, con conseguente estinzione dei processi pendenti) si ci trova di fronte ad una sostanziale vanificazione, da parte del legislatore, della via giurisdizionale, intesa quale mezzo al fine dell'attuazione di un preesistente diritto, il che integra appunto la violazione dell'art. 24 della Costituzione (cfr. ad es. in tal senso anche Corte costituzionale n. 123/1987). Nel caso in esame non appare possibile affermare che il legislatore abbia soddisfatto, anche se non integramente, le ragioni fatte valere nei giudizi dichiarati estinti. Il prec. art. 36, al primo comma, stabilisce, infatti, che sugli arretrati, dovuti alla data del 31 dicembre 1995, venga corrisposta esclusivamente una somma pari al 5 per cento dell'importo maturato, mentre per gli anni successivi, sulle somme ancora da rimborsare, sono dovuti gli interessi pari alla variazione dell'indice dei prezzi al consumo per famiglie di operai ed impiegati, accertata dall'Istat per l'anno precedente. In altri termini, il diritto ad interessi legali, e rivalutazione, sul credito maturato fino al 31 dicembre 1991 e, per il periodo successivo, al diritto alla maggior somma derivante o dall'applicazione dei tassi di svalutazione o del saggio degli interessi legali (pari al 5% annuo fino al 15 dicembre 1990; al 10% annuo fino al 31 dicembre 1996; al 5% annuo fino al 31 dicembre 1998 ed a 2,50% annuo a fare tempo dal 1 gennaio 1999) viene, per cosi' dire, sostituito con il riconoscimento delle somme di cui sopra. Proprio dal raffronto tra tali dati numerici sembra emergere, oggettivamente documentata, senza necessita' di particolari calcoli, il carattere solo parziale di siffatto riconoscimento, di natura simbolica, tanto piu' che - come visto - la predetta percentuale del 5% viene riconosciuta esclusivamente sull'intero capitale dovuto alla data del 31 dicembre 1995. Appare, quindi, configurabile la sostanziale esclusione degli interessi (id est, di riconoscimento meramente simbolico degli stessi, soprattutto con riferimento alle somme maturate alla data del 31 dicembre 1995), posta a fondamento della decisione della Corte costituzionale dell'art. 7, ultimo comma, della legge 4 luglio 1959, n. 463, come modificato dall'art. 12 della legge 22 luglio 1966, n. 613, nella parte in cui non prevedeva la corresponsione di una somma a titolo di interessi dalla scadenza di un congruo termine. Nella fattispecie, il cd. ius superveniens, non ha, dunque, determinato un arricchimento della situazione patrimoniale della interessata, avendo, a contrario, contribuito a determinare un suo impoverimento, attraverso il meccanismo della esclusione della attribuzione di rivalutazione monetaria, e con la corresponsione di una somma, come visto sostanzialmente solo simbolica, a titolo di interessi. Il dubbio di legittimita' costituzionale investe, altresi', la normativa, nella parte in cui dispone che, alla estinzione del giudizio, consegue la compensazione delle spese tra le parti. Condivisibile e', infatti, l'autorevole opinione (v. ad es. Consiglio di Stato sez. VI, ord. 3 maggio 1994, n. 664; Corte di cassazione, sez. lav. ord. 15 maggio 1996, n. 405) secondo la quale, attraverso tale disposizione, si sottrae, al giudice della pretesa sostanziale dedotta in giudizio, un punto accessorio della controversia che, anche per i riflessi di ordine economico sulla entita' dell'incremento in concreto realizzato dal soggetto vittorioso, non puo' essere distolto senza che ne resti violato, ancora una volta, l'art. 24 Cost. Inoltre, la sopra ricordata disciplina prevista per il rimborso delle somme dovute appare essere - nella parte in cui sostanzialmente riconosce una somma solo simbolica in luogo del rimborso degli interessi legali e della rivalutazione monetaria sulle somma dovute - in contrasto con quanto disposto dall'art. 3 della Costituzione. Non sembra lecito, in proposito, dubitare che la disciplina in esame viene ad incidere sfavorevolmente nel patrimonio di destinatari appartenenti a fasce sociali tra le piu' svantaggiate, avendo l'integrazione al minimo la funzione di corroborare la pensione quando, dal calcolo in base ai contributi accreditati al lavoratore, o al de cuius, risulti un importo inferiore ad un minimo ritenuto necessario, in mancanza di altri redditi di una certa consistenza, ad assicurargli mezzi adeguati alle esigenze di vita (v. al riguardo proprio Corte costituzionale n. 240 del 1994 applicabile direttamente nel giudizio in esame). Inconferente, in materia, il riferimento alla sentenza n. 320 del 13 luglio 1995 della Corte costituzionale, essendo la fattispecie oggetto di quel giudizio diversa da quella in esame. La particolare disciplina (rimborsi dovuti dall'I.N.P.S. a titolo di sgravi contributivi per effetto della sentenza n. 261 del 1991 della Corte costituzionale) vagliata dalla Consulta con la sentenza n. 320/1995, trovava la sua giustificazione nelle diverse finalita' assolte dall'istituto degli sgravi contributivi con riferimento ai suoi destinatari; nel caso in esame, a contrario, non sembra ravvisabile, nell'ambito di quella parte della pensione rappresentata dalla integrazione al minimo, sottratta ai beneficiari, una distinzione della sua funzione - previdenziale - in rapporto alla diversa epoca della sua erogazione in loro favore. La norma in questione, nella parte in cui opera un sostanziale disconoscimento delle somme dovute a titolo di interessi e rivalutazione monetaria, pare essere lesiva anche dell'art. 38 della Costituzione, quanto meno con riferimento al periodo anteriore alla entrata in vigore dell'art. 16, comma 6, della legge n. 421 del 1991. L'integrazione al minimo, infatti, costituisce un credito previdenziale rappresentando una componente non ancora liquidata dell'ordinaria pensione, ed avendo la Corte Costituzionale con sentenza n. 156 del 1991 ritenuto applicabile alle prestazioni previdenziali, per il tramite e nella misura di questa norma, l'art. 36 della Costituzione quale parametro delle esigenze di vita del lavoratore, delle quali l'art. 429, comma 2, cod. proc. civ. rappresenta un modo di attuazione. Palese, infine, a parere di questa sezione, e' la rilevanza della questione di legittimita' nel presente giudizio, atteso che all'evidenza, la predetta normativa - della cui legittimita' costituzionale si dubita - vi incide direttamente, avendo - come visto - stabilito la estinzione dello stesso, con compensazione integrale delle spese di lite tra le parti.